Era da un po' che avevo in mente di provare qualche ricetta con il quinto quarto e mi son sempre chiesta se alla fine ce l'avrei fatta.
Perché insomma, un conto è mangiare un orecchio di maiale bello croccante che sembra una patatina, un conto cazzo è comprarlo e toglierli prima cerume e peli.
Idem con il cervello. Dicono sia tanto buono ma io una testa di agnello tagliata a metà con ancora ancora tutti e 16 i denti attaccati e l'occhio che mi guarda un po' strabico mi spiace, ma la lascio lì.
E che d'altronde non è mica colpa mia se sono nata nella generazione di quelli che credono che le uova nascano già in cartoni da sei.
So di essere totalmente incoerente, ma datemi un coniglio morto e spellato e senza testa e ci vedrò un arrosto.
Datemelo vivo e gli farò solo grattini.
Datemelo vivo e gli farò solo grattini.
Ciò non toglie che tutto il discorso di riuscire a rivalutare tagli meno nobili considerati quasi di scarto mi ha sempre appassionato. Sia per un discorso di gusti nuovi da scoprire, sia per una questione di rispetto dell'animale.
Come dire: "ti faccio sì fuori ma prima ti lascio vivere una vita felice e poi cerco di non farti finire in scatolette di cibo _per cani e non_ e mi impegno ad utilizzare di te tutto l'utilizzabile cercando di godere appieno di ogni tua singola parte".
E ora chiamatemi pure Dio.
O Hannibal.
Ma non sul cellulare che ho poco credito.
E così ho anche comprato un libro. Offal. Inglese. Trovato solo online. Che prometteva grandi cose. Bella grafica, bella copertina, belle foto.
Per poi aprirlo e scoprire che i 3/4 sono ricette di tradizione Italiana che avrei potuto trovare benissimo nei libri che ho già a casa.
Fuck online shopping.
Fuck online shopping.
E quindi insomma, quando questo mese abbiamo deciso di parlare della carne ho pensato che non avrebbe potuto esserci occasione migliore per sperimentare qualcosa.
L'idea originale era quella di fare dei ravioli di lingua con del limone candito ma, quando al momento dell'acquisto della carne mi sono accorta che la lingua costava quanto un arrosto di reale mi sono chiesta allora di che razza di quinto quarto stessimo parlando e ho anche un po' maledetto tutti quelli che hanno fatto tornare di moda le frattaglie.
E poi ho visto lì di fianco la trippa di foiolo.
Bella sfogliata. Bella pulita. Bella sbiancata chimicamente. Bella economica.
E mi son detta che tanto in un raviolo lingua o trippa in fondo non avrebbe poi fatto tanta differenza.
Mh.
E qual'è la morte della trippa? Stare coi fagioli.
Ma io avevo solo dei ceci.
E dato che un'altra idea che avevo in testa da tempo era quella di provare a denaturare la farina di legumi in modo da renderla impastabile, non ci ho pensato due volte e ho fatto un test.
Anche se forse accendere il forno a 90°C per tre ore per soli 300 g di farina non è stata proprio una gran furbata....
E così son nati questi cappelletti. Leggeri, proteici, senza glutine, con pochissimi grassi.
Perché sì, la trippa in realtà, a dispetto del nome, è un taglio magrissimo.
...E alla fine si scoprì che "ciao trippona" non era mai stato un insulto bensì un complimento.....
Prima della ricetta leggetevi però la scheda del Comandante che secondo me in pochi sono così ben preparati sui vari nomi delle bestie.
"La carne bovina che noi
utilizziamo in cucina appartiene a mammiferi della famiglia dei Bovidae, rappresentati dal genere Bos e dalla specie Bos taurus.
I bovini sono animali erbivori
ruminanti e come tutti i ruminanti sono caratterizzati dall’avere 3 prestomaci
(reticolo, rumine e omaso) ed uno stomaco (abomaso) dove avvengono diverse fasi
della digestione. La dieta di questi erbivori è svariata soprattutto se gli
animali vengono allevati all’aperto (in alpeggio durante l’estate e nei pascoli
pedemontani o di pianura durante le altre stagioni) e non in stabulazione fissa
in maniera intensiva. Sulla metodologia di allevamento e benessere animale ci
sarebbe da parlare per una giornata intera poiché poi quando noi cuociamo una
semplice fettina di carne alla piastra e questa si riduce della metà e diventa
dura come una suola di scarpa forse sarebbe il caso di chiederci da dove arriva
questa fettina…
Oltre che per la razza, e
l’Italia è regina di biodiversità anche in questo campo, la carne che
utilizziamo deriva da animali di età differente che vengono chiamati con nomi
differenti.
Per prima cosa parliamo delle
razze. Fra i bovini esistono razze allevate per la produzione di latte (come la
bruna alpina, la frisona e la jersey), per la produzione di carne (come la
simmenthal, la limousine, la charolaise,
l’aberdeen angus, la piemontese o fassone, la chianina, la marchigiana e la
maremmana) e quelle allevate con duplice attitudine (come la rendena, la bianca
modenese, la podolica, la valdostana pezzata, la normanna e la rossa danese).
In passato, e tutt’oggi in alcuni paesi dove la meccanizzazione
dell’agricoltura è ancora inesistente o molto arretrata, esistevano razze tipicamente
da lavoro come da noi in Italia la chianina, la maremmana e la piemontese solo
per citarne alcune. Come detto sopra nel nostro paese esistono svariate razze
anche molto rustiche (come la varzese, la pustertaler, la cabannina e anche la stessa
maremmana) che hanno ancora una duplice ed a volte una triplice attitudine.
Senza addentrarci oltre nella
suddivisione spesso solo sulla carta dell’attitudine di ogni razza, passiamo
invece a parlare della suddivisione dovuta all’età dell’animale.
Il maschio viene chiamato
balliotto dalla nascita fino alla prima settimana di vita, vitello fino al
primo anno di età, manzo (se è castrato) o vitellone dal primo al quarto anno,
bue (se castrato) o toro dopo il quarto anno di età.
La femmina viene chiamata vitella
fino al primo anno di vita, manzetta se non ha ancora partorito ed è di età
inferiore ai venti mesi, manza o giovenca tra il primo ed il terzo anno di vita
e vacca se è di età superiore ai tre anni o se è sotto i tre anni ma in stato
gravido. Il termine mucca è invece riferito al bovino femmina in genere ma è un
dialettismo di origine toscana forse di derivazione onomatopeica o forse dai
termini latini mulgere (mungere) e mugire (muggire).
Dagli esemplari allevati per la
carne (ma ovviamente anche dagli altri volendo) si ottengono diversi tagli utilizzabili
in ambito culinario per le più svariate preparazioni: dal taglio della coscia
si ottengono codone, noce, sottofesa e girello, dal taglio della lombata filetto,
controfiletto e carré, dal taglio della schiena costata, dal taglio del collo e della testa si
ottengono collo, lingua e testina, dalla spalla si possono avere cappello del
prete e fusello, dai garretti gli ossibuchi, dal petto la punta di petto, dal
costato si ottengono biancostato di reale e taglio reale e dal taglio della
pancia biancostato di pancia e fiocco. Questi pezzi sono solo alcuni di quelli
ottenibili e ovviamente a seconda della regione e assumono nominazioni
differenti.
Non dimentichiamoci poi che anche le interiora vengono utilizzate a scopi gastronomici: cervella, fegato, animelle sono le basi di un piatto tipico piemontese, il fritto misto alla piemontese e la trippa (che altro non è che parte degli stomaci e non dell’intestino come molti credono) sono comunemente utilizzate in molte ricette tradizionali della cucina regionale italiana (ad esempio i trippai fiorentini che preparano il caratteristico panino col lampredotto, che rientra tra i cibi di strada ora tanto ricercati, rappresentano una piacevole tradizione legata ai piatti poveri del passato).
Non dimentichiamoci poi che anche le interiora vengono utilizzate a scopi gastronomici: cervella, fegato, animelle sono le basi di un piatto tipico piemontese, il fritto misto alla piemontese e la trippa (che altro non è che parte degli stomaci e non dell’intestino come molti credono) sono comunemente utilizzate in molte ricette tradizionali della cucina regionale italiana (ad esempio i trippai fiorentini che preparano il caratteristico panino col lampredotto, che rientra tra i cibi di strada ora tanto ricercati, rappresentano una piacevole tradizione legata ai piatti poveri del passato).
La raccomandazione che mi sento
di fare è quella di utilizzare possibilmente carne italiana derivante da
animali allevati in maniera consapevole e preferibilmente a stabulazione libera
che magari effettuano la transumanza o l’alpeggio in maniera che possano
cibarsi delle più svariate qualità di erbe che poi andranno a dare determinate
caratteristiche anche alla carne.
ANCHE SE SO CHE AVRESTE VOLUTO
CHE VI PARLASSI DEL VITELLO DAI PIEDI DI BALSA… MA PAZIENZA!!!"
Ecco qui la mia ricetta e qui quella della Serena.
Cappelletti di farina di ceci e trippa
Ingredienti per 4 persone
300 g di farina di ceci denaturata (passata in forno a 90°C per 3 h)
300 g circa di trippa di foiolo
due cucchiai di salsa di pomodoro
una cipolla media
due limoni
qualche chiodo di garofano
due foglie d'alloro
olio extravergine
sale
un pizzico di pepe nero
un paio di cucchiai di formaggio tipo Grana
Sminuzzate la cipolla e mettetela in una pentola con un po' d'olio sul fondo a fuoco minimo che ormai lo sappiamo che il soffritto sbruciacchiato è cancerogeno oltre a non usarsi più dagli anni '90 e fate andare piano piano fino a quando non sarà diventate trasparente.
Preparate la trippa. Giuro. Non fa così schifo come sembra. Non è viscida e di certo i puntini in rilievo non sembrano delle papille gustative.
Sciacquatela bene sotto l'acqua e tagliatela a pezzetti. Buttatela nella pentola, aggiungete un limone tagliato a metà, il pomodoro, i chiodi di garofano, l'alloro e un pizzico di sale.
Coprite e fate andare per almeno un paio d'ore aggiungendo ogni tanto un goccio d'acqua se necessario.
Preparate la sfoglia impastando per bene la farina di ceci con due cucchiai d'olio e un pizzico di sale.
Quando la trippa sarà ben cotta, morbida e asciutta (se non lo è fate in modo che lo sia) togliete gli aromi e versatela nel bicchiere del frullatore frullando fino ad ottenere un composto morbido e cercando di non pensare al fatto che aggiungendo un po' di latte si potrebbe ottenere un milkshake.
Non preoccupatevi di ottenere una poltiglia perchè ciò non avverrà essendo la trippa abbastanza tenace e gommosetta.
Stendete la sfoglia il più sottile possibile fino a vederci attraverso ma non per i buchi, tagliate dei quadrati di circa 5-6 cm per lato, adagiate al centro di ognuno una pallina di ripieno e chiudete a cappelletto.
Cuocete per 3-4 minuti in abbondante acqua salata, scolate e condite con olio extravergine, la buccia grattugiata dell'altro limone, pepe nero e un po' di formaggio.
Servite senza dire cosa c'è dentro che sennò non li mangerà nessuno.
Servite senza dire cosa c'è dentro che sennò non li mangerà nessuno.