giovedì 31 ottobre 2013

Un ingrediente per due: la carne bovina


Era da un po' che avevo in mente di provare qualche ricetta con il quinto quarto e mi son sempre chiesta se alla fine ce l'avrei fatta.
Perché insomma, un conto è mangiare un orecchio di maiale bello croccante che sembra una patatina, un conto cazzo è comprarlo e toglierli prima cerume e peli.
Idem con il cervello. Dicono sia tanto buono ma io una testa di agnello tagliata a metà con ancora ancora tutti e 16 i denti attaccati e l'occhio che mi guarda un po' strabico mi spiace, ma la lascio lì.
E che d'altronde non è mica colpa mia se sono nata nella generazione di quelli che credono che le uova nascano già in cartoni da sei.
So di essere totalmente incoerente, ma datemi un coniglio morto e spellato e senza testa e ci vedrò un arrosto.
Datemelo vivo e gli farò solo grattini.

Ciò non toglie che tutto il discorso di riuscire a rivalutare tagli meno nobili considerati quasi di scarto mi ha sempre appassionato. Sia per un discorso di gusti nuovi da scoprire, sia per una questione di rispetto dell'animale. 
Come dire: "ti faccio sì fuori ma prima ti lascio vivere una vita felice e poi cerco di non farti finire in scatolette di cibo _per cani e non_ e mi impegno ad utilizzare di te tutto l'utilizzabile cercando di godere appieno di ogni tua singola parte".

E ora chiamatemi pure Dio.
O Hannibal.

Ma non sul cellulare che ho poco credito.

E così ho anche comprato un libro. Offal. Inglese. Trovato solo online. Che prometteva grandi cose. Bella grafica, bella copertina, belle foto.
Per poi aprirlo e scoprire che i 3/4 sono ricette di tradizione Italiana che avrei potuto trovare benissimo nei libri che ho già a casa.
Fuck online shopping.

E quindi insomma, quando questo mese abbiamo deciso di parlare della carne ho pensato che non avrebbe potuto esserci occasione migliore per sperimentare qualcosa.
L'idea originale era quella di fare dei ravioli di lingua con del limone candito ma, quando al momento dell'acquisto della carne mi sono accorta che la lingua costava quanto un arrosto di reale mi sono chiesta allora di che razza di quinto quarto stessimo parlando e ho anche un po' maledetto tutti quelli che hanno fatto tornare di moda le frattaglie.

E poi ho visto lì di fianco la trippa di foiolo. 
Bella sfogliata. Bella pulita. Bella sbiancata chimicamente. Bella economica. 
E mi son detta che tanto in un raviolo lingua o trippa in fondo non avrebbe poi fatto tanta differenza. 
Mh.
E qual'è la morte della trippa? Stare coi fagioli. 
Ma io avevo solo dei ceci.
E dato che un'altra idea che avevo in testa da tempo era quella di provare a denaturare la farina di legumi in modo da renderla impastabile, non ci ho pensato due volte e ho fatto un test.
Anche se forse accendere il forno a 90°C per tre ore per soli 300 g di farina non è stata proprio una gran furbata....

E così son nati questi cappelletti. Leggeri, proteici, senza glutine, con pochissimi grassi.
Perché sì, la trippa in realtà, a dispetto del nome, è un taglio magrissimo. 

...E alla fine si scoprì che "ciao trippona" non era mai stato un insulto bensì un complimento.....


Prima della ricetta leggetevi però la scheda del Comandante che secondo me in pochi sono così ben preparati sui vari nomi delle bestie.

"La carne bovina che noi utilizziamo in cucina appartiene a mammiferi della famiglia dei Bovidae, rappresentati dal genere Bos e dalla specie Bos taurus.
I bovini sono animali erbivori ruminanti e come tutti i ruminanti sono caratterizzati dall’avere 3 prestomaci (reticolo, rumine e omaso) ed uno stomaco (abomaso) dove avvengono diverse fasi della digestione. La dieta di questi erbivori è svariata soprattutto se gli animali vengono allevati all’aperto (in alpeggio durante l’estate e nei pascoli pedemontani o di pianura durante le altre stagioni) e non in stabulazione fissa in maniera intensiva. Sulla metodologia di allevamento e benessere animale ci sarebbe da parlare per una giornata intera poiché poi quando noi cuociamo una semplice fettina di carne alla piastra e questa si riduce della metà e diventa dura come una suola di scarpa forse sarebbe il caso di chiederci da dove arriva questa fettina…

Oltre che per la razza, e l’Italia è regina di biodiversità anche in questo campo, la carne che utilizziamo deriva da animali di età differente che vengono chiamati con nomi differenti.
Per prima cosa parliamo delle razze. Fra i bovini esistono razze allevate per la produzione di latte (come la bruna alpina, la frisona e la jersey), per la produzione di carne (come la simmenthal,  la limousine, la charolaise, l’aberdeen angus, la piemontese o fassone, la chianina, la marchigiana e la maremmana) e quelle allevate con duplice attitudine (come la rendena, la bianca modenese, la podolica, la valdostana pezzata, la normanna e la rossa danese). In passato, e tutt’oggi in alcuni paesi dove la meccanizzazione dell’agricoltura è ancora inesistente o molto arretrata, esistevano razze tipicamente da lavoro come da noi in Italia la chianina, la maremmana e la piemontese solo per citarne alcune. Come detto sopra nel nostro paese esistono svariate razze anche molto rustiche (come la varzese, la pustertaler, la cabannina e anche la stessa maremmana) che hanno ancora una duplice ed a volte una triplice attitudine.

Senza addentrarci oltre nella suddivisione spesso solo sulla carta dell’attitudine di ogni razza, passiamo invece a parlare della suddivisione dovuta all’età dell’animale.
Il maschio viene chiamato balliotto dalla nascita fino alla prima settimana di vita, vitello fino al primo anno di età, manzo (se è castrato) o vitellone dal primo al quarto anno, bue (se castrato) o toro dopo il quarto anno di età.
La femmina viene chiamata vitella fino al primo anno di vita, manzetta se non ha ancora partorito ed è di età inferiore ai venti mesi, manza o giovenca tra il primo ed il terzo anno di vita e vacca se è di età superiore ai tre anni o se è sotto i tre anni ma in stato gravido. Il termine mucca è invece riferito al bovino femmina in genere ma è un dialettismo di origine toscana forse di derivazione onomatopeica o forse dai termini latini mulgere (mungere) e mugire (muggire).

Dagli esemplari allevati per la carne (ma ovviamente anche dagli altri volendo) si ottengono diversi tagli utilizzabili in ambito culinario per le più svariate preparazioni: dal taglio della coscia si ottengono codone, noce, sottofesa e girello, dal taglio della lombata filetto, controfiletto e carré, dal taglio della schiena  costata, dal taglio del collo e della testa si ottengono collo, lingua e testina, dalla spalla si possono avere cappello del prete e fusello, dai garretti gli ossibuchi, dal petto la punta di petto, dal costato si ottengono biancostato di reale e taglio reale e dal taglio della pancia biancostato di pancia e fiocco. Questi pezzi sono solo alcuni di quelli ottenibili e ovviamente a seconda della regione e assumono nominazioni differenti. 
Non dimentichiamoci poi che anche le interiora vengono utilizzate a scopi gastronomici: cervella, fegato, animelle sono le basi di un piatto tipico piemontese, il fritto misto alla piemontese e la trippa (che altro non è che parte degli stomaci e non dell’intestino come molti credono) sono comunemente utilizzate in molte ricette tradizionali della cucina regionale italiana (ad esempio i trippai fiorentini che preparano il caratteristico panino col lampredotto, che rientra tra i cibi di strada ora tanto ricercati, rappresentano una piacevole tradizione legata ai piatti poveri del passato).

La raccomandazione che mi sento di fare è quella di utilizzare possibilmente carne italiana derivante da animali allevati in maniera consapevole e preferibilmente a stabulazione libera che magari effettuano la transumanza o l’alpeggio in maniera che possano cibarsi delle più svariate qualità di erbe che poi andranno a dare determinate caratteristiche anche alla carne.
  
ANCHE SE SO CHE AVRESTE VOLUTO CHE VI PARLASSI DEL VITELLO DAI PIEDI DI BALSA… MA PAZIENZA!!!"

Ecco qui la mia ricetta e qui quella della Serena.

Cappelletti di farina di ceci e trippa

Ingredienti per 4 persone

300 g di farina di ceci denaturata (passata in forno a 90°C per 3 h)
300 g circa di trippa di foiolo
due cucchiai di salsa di pomodoro
una cipolla media
due limoni
qualche chiodo di garofano
due foglie d'alloro
olio extravergine
sale
un pizzico di pepe nero
un paio di cucchiai di formaggio tipo Grana

Sminuzzate la cipolla e mettetela in una pentola con un po' d'olio sul fondo a fuoco minimo che ormai lo sappiamo che il soffritto sbruciacchiato è cancerogeno oltre a non usarsi più dagli anni '90 e fate andare piano piano fino a quando non sarà diventate trasparente.
Preparate la trippa. Giuro. Non fa così schifo come sembra. Non è viscida e di certo i puntini in rilievo non sembrano delle papille gustative.
Sciacquatela bene sotto l'acqua e tagliatela a pezzetti. Buttatela nella pentola, aggiungete un limone tagliato a metà, il pomodoro, i chiodi di garofano, l'alloro e un pizzico di sale.
Coprite e fate andare per almeno un paio d'ore aggiungendo ogni tanto un goccio d'acqua se necessario.
Preparate la sfoglia impastando per bene la farina di ceci con due cucchiai d'olio e un pizzico di sale.
Quando la trippa sarà ben cotta, morbida e asciutta (se non lo è fate in modo che lo sia) togliete gli aromi e versatela nel bicchiere del frullatore frullando fino ad ottenere un composto morbido e cercando di non pensare al fatto che aggiungendo un po' di latte si potrebbe ottenere un milkshake.
Non preoccupatevi di ottenere una poltiglia perchè ciò non avverrà essendo la trippa abbastanza tenace e gommosetta.
Stendete la sfoglia il più sottile possibile fino a vederci attraverso ma non per i buchi, tagliate dei quadrati di circa 5-6 cm per lato, adagiate al centro di ognuno una pallina di ripieno e chiudete a cappelletto.
Cuocete per 3-4 minuti in abbondante acqua salata, scolate e condite con olio extravergine, la buccia grattugiata dell'altro limone, pepe nero e un po' di formaggio.
Servite senza dire cosa c'è dentro che sennò non li mangerà nessuno.


martedì 22 ottobre 2013

Med Diet Camp Cagliari



Come già tutti vi sarete accorti dalle mie millemila foto su Instagram e Facebook, l'ultimo fine settimana di settembre sono stata al Med Diet di Cagliari*.
Il mio primo evento in veste ufficiale di food blogger.
E non è che postassi istericamente perché volessi menarmela (ma forse un po' anche sì), è solo che l'emozione della prima volta porta ad essere un po' idioti. E così si esce di casa sani (ah. ah.) e si finisce col taggarsi al check in dell'aeroporto come le peggio bimbeminkia.
Ma per fortuna (vostra) la 3 prende meno di un cieco al tiro al piattello e così ho smesso subito.

Di questo week end mi ricordo principalmente tre cose: l'umidità al 99%, la compagnia e la dieta. 
Voi non potete immaginare il caldo che faceva (giuro, in inverno non faccio così schifo), come non potete immaginare (o forse sì?) cosa voglia dire andare in giro con delle food blogger. 
Del tipo che si esce insieme dall'hotel con l'intento di vedere un po' il centro città. Ci si ferma al negozio di fronte che vende biscotti artigianali. Poi si esce. Ci si ferma al negozio dopo che vende specialità sarde. Si fa una lunga sosta per assaggiare salumi, formaggi e vino. Poi si esce. E ci si siede per un aperitivo. Totale metri percorsi: 50. Totale chili di roba acquistati: 5. Totale roba assaggiata: dati non disponibili.
E poi le chiacchiere. 50 donne insieme, per di più con interessi comuni, sono il delirio totale. 
Per i primi momenti, ma pure ore, gira quasi la testa. Saluti una poi saluti l'altra poi inizi un discorso ma non riesci a finirlo poi ti giri poi ti chiamano poi torni sul discorso di prima poi vorresti parlare con tutte ma non ce la fai. Insomma un casino. Un gran bel casino. Ma poi finisce che nel mucchio trovi anche la tua dimensione e finisci con l'incontrare delle persone veramente valide (leggasi veramente-idiote-quanto-te). E così, tra qualche bicchiere di prosecco e tocchi di pecorino, ti ritrovi a pensare che forse in fondo essere una food blogger non è poi tanto male.
PS per le tre che hanno la coda di paglia e che si son sentite tirate in causa sì, parlo proprio di voi.

E poi c'è la dieta mediterranea. Ultima ma non ultima. Il motivo per il quale tutte eravamo lì.
Voi tutti sapete bene quanto io tra le minchiate che scrivo cerchi sempre di trasmettere una sorta di educazione alimentare in cui credo fermamente. E sì lo so che forse dovrei impegnarmi di più, ma non vorrei rischiare di diventare troppo seria.
Ormai  lo si sente in ogni dove: noi siamo quello che mangiamo.
Cosa da evitare di pensare mentre si addenta un porceddu.

Tutti ormai sappiamo benissimo l'impatto che la nostra alimentazione ha sulla nostra salute. Tutti ormai sappiamo (o forse no?) che se mangiamo sano stiamo anche meglio.
Ma cosa significa mangiar sano? Non ve lo ricordate? Bene, facciamo un ripasso:
tanta frutta e verdura fresca, non trattata, di stagione e possibilmente locale, meglio cruda e quando cotta cotta il meno possibile per mantenere tutti i principi nutrizionali. Cereali di tutti i tipi da alternare possibilmente tutti i giorni, spesso integrali, ovviamente non trattati manco questi. Meno sale e più erbe aromatiche. Parecchi legumi. Poche uova, latticini e carne, più spesso le bianche e raramente le rosse, ovviamente meglio se da allevamenti estensivi. Pesce, ma non quello allevato, tranne i molluschi, né quello a rischio estinzione. Pochi grassi animali. Olio extravergine d'oliva, italiano, possibilmente a crudo. Pochi zuccheri. Un bicchiere di vino ogni tanto. Niente cose confezionate. Niente cose industriali. Niente additivi. Poche cose che hanno un packaging e quando c'è che sia ecologico. Frutta esotica e alimenti importati dal terzo mondo solo se fair trade.
(PS per chiarimenti singoli e motivazioni specifiche chiedete pure a google che io non sono mica un'enciclopedia).

Okok ci ho aggiunto qualcosa di mio ma il senso è chiaro.
E se le togliete, il resto è quella che viene chiamata Dieta Mediterranea.
Che è una delle poche diete che non si fa per dimagrire ma per star meglio e vivere fino a 200 anni (cheppalle ma speriamo pure di no....).

E quindi, infine, grazie a Patty che mi ha coinvolta in questo bellissimo evento. Grazie all'Associazione nazionale Città dell'Olio che si è resa artefice di questa interessante e utile esperienza. Grazie agli Chef, ai relatori e a tutti gli organizzatori. 
E grazie ovviamente a tutte le altre 49 colleghe.

E ora....quand'è che è il prossimo evento??!!

E sì, lo so che le foto fan cagare.



*Il MedDiet Camp è il primo dei cinque grandi eventi pianificati da MedDiet, progetto strategico finanziato dall’Unione Europea nell’ambito del Programma ENPI CBC Bacino del Mediterraneo 2007-2013. Con un budget complessivo pari a circa 5 milioni di euro e una durata di 30 mesi, il progetto mira a promuovere e valorizzare la Dieta Mediterranea, riconosciuta Patrimonio immateriale dell’Umanità Unesco nel 2010. Oltre all’Italia, che partecipa con Unioncamere in qualità di capofila, il Centro Servizi per le imprese della Camera di Commercio di Cagliari, il Forum delle Camere di Commercio dell’Adriatico e dello Ionio e l’Associazione nazionale Città dell’Olio quali partners, il progetto coinvolge altri 5 Paesi del Mediterraneo (Egitto, Grecia, Libano, Spagna e Tunisia).






lunedì 30 settembre 2013

Un ingrediente per due: il fico


La gente narra che io non mi ricordi mai una mazza e che quel poco che ricordo sia sempre legato al cibo.
Del tipo che non saprò mai dirvi dov'era quella piazzetta meravigliosa con quella chiesetta fantastica a picco sul mare ma saprò darvi le coordinate esatte di quel ristorantino in Alsazia dove mi ammazzai di raclette tirandone giù a cazzuolate come se non ci fosse un domani.
Ma queste sono solamente calunnie.
Perché infatti io in realtà non saprei dirvi nemmeno questo.
Alcune delle cose che invece mi son rimaste in mente forse a volte tendo ad ingigantirle col tempo.
Tipo che io sono assolutamente convinta che ogni lungo viaggio in auto affrontato in infanzia con la mia famiglia sia sempre stato corredato da una serie di soste in autogrill per l'acquisto di Grisbì e Figolù e che questo quindi giustifichi, per motivi puramente scaramantici, una perpetuazione della tradizione.
In realtà, a quanto pare, la cosa sembra sia successa al massimo solo un paio di volte e pertanto la gente insinua io ad oggi voglia semplicemente far la furbona.
Ulteriori calunnie.

Ma in memoria (mia) dei vecchi tempi e in onore a quel genio del male che ha chiamato dei biscotti al fico Figolù, questo mese i biscotti al fico me li sono fatta da me. A modo mio. E li chiamerò Figolà.
E dato che guarda caso siamo pure in settembre e casualmente l'ingrediente del mese è pure il fico, ecco qui la relativa scheda redatta da Comandante Amigo:

"Bè, a me sembrava ovvio, ma ci sono stati alcuni tentennamenti sulla decisione di chi avrebbe dovuto fare la scheda del Fico…
Il Fico nasce sul finire degli anni settanta in una giornata invernale in una città di mare e andrà a sostituire l’immagine dell’uomo frichettone figlio dei fiori che tanto piaceva dopo woodstock e quella del paninaro in voga a metà anni ‘80. Inizialmente biondo e con gli occhi azzurri, il Fico poteva confondersi facilmente negli anni ’80 con altri frutti immaturi poco appetibili del nord europa, ma, col passare degli anni, la maturazione del Fico ha portato ad avere a partire dalla metà degli anni ‘90 un soggetto molto appetibile col capello lungo (meno biondo) e l’occhio azzurro (sempre). Poi, sul finire degli stessi anni ‘90 il Fico ha modificato il suo aspetto esteriore, che poi è anche quello corrente che potete ancora (J) verificare di persona tutt’oggi: un Fico a piena maturità, glabro e con l’occhio azzurro (sempre)!
Ma forse voi volevate sapere qualcosa in più riguardo un’altra varietà di fico vero?
Bene, cercate della Raffaella? Potete chiedere a Cristiano Ronaldo o Mario Balotelli.
Invece cercate di Roberto? Potete allora chiedere a Beppe Grillo;
Invece vi interessa il Ficus Carica? Quella pianta di difficile distinzione botanica fra la pianta maschio fico e la pianta femmina nonsipuòdire? Quella pianta, il maschio, che produce frutti non commestibili e la femmina che produce:
·         i fioroni, che si formano da gemme dell'autunno precedente e maturano alla fine della primavera o all'inizio dell'estate;
·         i fichi, o forniti, o pedagnuoli che si formano da gemme in primavera e maturano alla fine dell'estate dello stesso anno;
·         i cimaruoli derivanti da gemme sommitali prodotte nell'estate la cui maturazione avviene nel tardo autunno laddove l'estate è molto lunga ed il clima particolarmente caldo e che comunque potrebbe spesso essere incompleta o insoddisfacente.
Bene, allora se è questa la varietà di fico che cercate, potete trovarvi da soli le notizie su wikipedia o su un qualsiasi manuale di botanica o di giardinaggio e lasciare il Fico a disposizione della sua amata foodblogger!

Aloa!"

Ecco poi qui la mia ricetta e qui invece quella della Serena.

Ingredienti per circa 20/25 biscotti ai fichi e rosmarino:


230 g di farina 00
20 g di farina di castagne
150 g di burro morbido
100 g di zucchero
40 g di tuorli
qualche ago di rosmarino
un pizzico di sale
300 g circa di fichi
un cucchiaio di zucchero di canna
un cucchiaio di miele

Per preparate questi biscotti fate una solita noiosa pasta frolla come vi ha insegnato la cognata.
Mischiate il burro molliccio con i tuorli e lo zucchero fino ad ottenere un pastone omogeneo. Aggiungete il rosmarino frullato finemente con lo zucchero, che se prima non ve lo avevo detto di farlo ve lo dico adesso, le farine e un pizzico abbondante di sale.
Lavorate velocemente il tutto fino ad ottenere una palla, schiacciatela un po' in modo si raffreddi prima ed avvolgetela nella pellicola. Fatela riposare in frigo per almeno mezz'ora.
In una padella antiaderente fate andare a fuoco alto i fichi tagliati a metà con lo zucchero di canna e il miele fino a quando saranno spappolati, asciutti e un po' caramellati.
Fateli raffreddare e nel mentre riprendete la frolla. Stendetela a rettangolo all'altezza di un paio di millimetri e tagliate delle strisce larghe circa tre centimetri e lunghe quanto volete.
Distribuite per il lungo di una striscia la composta di fichi e coprite con una seconda. Sigillate bene e cuocete in forno caldo ventilato a 180° per circa 10/15 minuti fino a quando inizieranno a dorarsi i bordi.
Sfornate, fate intiepidire e tagliate a fette.